Il Belpaese ammaina il Tricolore nelle grandi industrie
L’Italia non è mai stato terreno fertile per i grandi gruppi, tanto meno per quelli con respiro internazionale. Le poche multinazionali che c’erano prima della crisi erano però tutte italiane. Oggi molte, per un motivo o per l’altro, hanno ammainato il tricolore o sono scomparse dai radar perchè travolte dalla crisi o perchè si sono ridimensionate. Il Sole 24 Ore prende a riferimento i dati dell’osservatorio R&S-Mediobanca sulle multinazionali che ogni anno censisce le imprese con sede in Italia, oltre tre miliardi di fatturato, almeno il 10% delle vendite all’estero e almeno uno stabilimento produttivo oltreconfine. Nel 2006 – quando Lehman Bros era ancora la quarta, potente, banca d’affari Usa – se ne contavano 17 in Italia con questi criteri. Nel 2014, passata la buriana, ne erano rimaste 15, ma non più le stesse o almeno non più con lo stesso Dna. Il gruppo Exor con Fiat-Chrysler si è ingrandito a sorpassare Eni che per molti anni, grazie al petrolio, aveva sempre guidato il drappello per giro d’affari. Ma, alla prossima ricognizione, il gruppo Agnelli scomparirà dalla classifica, avendo trasferito ad Amsterdam la sede legale di holding e società operativa. La proprietà è rimasta italiana, il baricentro però si è spostato verso l’America con l’acquisizione e il risanamento della più piccola delle case automobilistiche di Detroit, servita anche a Fiat a uscire dalle secche dell’epoca pre-Marchionne. Telecom è passata dai tentativi di mantenere la proprietà in mani italiane a un nuovo azionista di riferimento francese, Vivendi. Italcementi invece è stata ceduta interamente ai tedeschi di Heidelberg, ponendo fine all’avventura nel cemento dei Pesenti, che nel settore c’erano rimasti per generazioni. Pirelli — continua il quotidiano economico-finanziario nella sua analisi — ha mantenuto “cuore e cervello” in Italia, ma per crescere ha scelto i cinesi di ChemChina come partner e nuovo azionista di maggioranza. Luxottica – è notizia di queste ore – si è sposata con i francesi di Essilor, completando la gamma dell’occhialeria dalla montatura alle lenti. La proprietà, riunita nella holding di famiglia Delfin, resta italiana, ma la sede di quella che diventerà una sorta di Stm privata si sposta a Parigi. Sulla gestione si vedrà: finchè resta in azienda il fondatore Leonardo Del Vecchio non ci sono molti dubbi su chi “comanda”, poi è probabile che la squadra manageriale francese, già rodata dalla formula della public company, avrà la meglio. Parmalat, a proposito di public company: l’esperienza dell’azionariato diffuso è terminata bruscamente con la calata della famiglia Besnier, attirata dal “tesoretto” accumulato dal “mastino” Enrico Bondi, dopo il disastro Tanzi. La francese Lactalis, già titolare di altri marchi lattiero-caseari della Penisola a partire da Galbani, sta ora promuovendo una seconda Opa per ritirare quel poco flottante che è avanzato dalla prima. L’Indesit dalla famiglia Merloni è passata alla Whirlpool, ma l’esperienza non è stata delle più felici. Delle altre, che comparivano nella fotografia scattata nel 2006, Riva è finita nei guai per le note vicende dello stabilimento di Taranto, Cofide e Buzzi sono uscite dal gruppo delle multinazionali censite per perdita dei criteri di elezione. Li avrebbe persi anche Intek (l’ex gruppo Orlando), che comunque ha spostato il controllo in Olanda. Sono rimaste Barilla e Marcegaglia, sempre a controllo familiare, e si sono aggiunte Prada e Menarini. L’unica sopravissuta come public company è Prysmian, l’ex Pirelli cavi che, senza padroni, è riuscita a mettere a segno un’acquisizione importante in Olanda, guadagnando posizioni. Per il resto — conclude Il Sole — c’è il tris di Stato, con Eni, Enel e Finmeccanica che sono sempre lì e, in aggiunta, è spuntata ora anche Fincantieri a completare la squadra.
CONTRATTO COLLETTIVO COLF E BADANTI: CHIEDI CONSIGLIO A EBILCOBA, SOTTOSCRIVI IL NUOVO CONTRATTO NAZIONALE DI LAVORO INSERENDO IL CODICE E1 NEI VERSAMENTI INPS